Storie brevi

III: Taxi per l’Altrove

Un secondo molo di legno li aspettava, protendendosi sull’acqua. Stavolta Pietro fece più attenzione a scendere, affidandosi alla proboscide della bestia stravagante. Ebbe come la sensazione che si ha nei sogni, quando si chiudono le palpebre e ci si ritrova in un posto diverso, come per un salto dimensionale. La riva del fiume era esattamente speculare a quella che avevano lasciato: una riva erbosa, le antiche mura della città che si aprivano su un arco di ferro e i tetti delle case che s’intravedevano oltre di esso.

Il giovane seguì la sua guida verso il secondo cancello che immetteva nella città: anche questo era socchiuso, come avevano lasciato il primo. Attraverso il cancello arrivavano i rumori della città: musica, canti, voci.

“C’è una festa?” chiese Pietro.

“Non proprio. Vedrai” disse il suo accompagnatore, sempre enigmatico.

Mentre stavano per imboccare il lungo vicolo buio, Pietro si fermò e vide che le strane creature che avevano cavalcato per attraversare il fiume erano sparite.

“Ehi! Quei cosi…gli elefanti, o quello che sono. Non ci sono più! Come faremo a tornare indietro?” chiese.

“Non ne abbiamo più bisogno, da qui possiamo solo andare avanti” rispose il tassista, gli occhi che brillavano come specchi sotto la visiera del suo berretto.

“Ma come…?”

“Nella vita si può solo andare avanti” detto ciò si voltò e riprese a camminare lungo il vicolo.

Il vicolo finiva come Pietro ricordava, con un’altra strada cittadina illuminata da lampioni proiettanti una calda luce gialla. Solo che questo vicolo, a differenza di quello da cui erano arrivati, era costeggiato da porte e finestre aperte: fuori dalle porte erano ammucchiati tavoli, sedie, cornici di legno finemente intagliate, bauli da viaggio che sembravano arrivati da altre epoche. Le finestre erano adornate da fiori colorati che frusciavano nella brezza notturna. La musica e le voci che sentivano, provenivano dalle radio, da antichi grammofoni e da vecchie TV accese dentro le case, le cui immagini in bianco e nero mostravano programmi e pubblicità di altre epoche. A parte questo, la città sembrava deserta.

“Che significa?” chiese incredulo il giovane, esaminando da vicino gli oggetti abbandonati.

“Significa addio mondo! Vado a bruciare e la mia cenere finirà nelle stelle!” fece una voce proveniente da un baule.

Pietro fece un balzo indietro e si guardò intorno, cercando la fonte della voce misteriosa.

“Ma quali stelle! Vorrai dire le stalle: sarai buon fertilizzante per la terra!” rispose una seconda voce.

“Chi ha parlato?” chiese il giovane.

“Qui in basso giovanotto” disse di nuovo la voce vicino al baule da viaggio.

“Dove?”

“Proprio qui idiota, non senti che ti sto parlando?”

Pietro allungò una mano e bussò incerto sul baule. Il suono gli tornò cavo all’orecchio e decise di aprirlo per controllare che non ci fosse qualcuno nascosto dentro; ma il baule era vuoto davvero.

“Ehi! Che modi!” fece di nuovo la voce.

“Che ne pensi?” chiese il tassista, apparso affianco al giovane improvvisamente, facendolo sussultare.

“Io non capisco” disse questi.

“Allora sei più testa di legno di noi!” rise la voce fantasma, seguita da altre che si univano alla sua battuta.

“Non cercare troppo lontano Pietro, la risposta ce l’hai davanti” disse il tassista con aria divertita.

“Vuoi dire che…sono questi mobili a parlare?” chiese Pietro.

“Tombola! Il ragazzo ci è arrivato!” risero le voci.

“Ma com’è possibile? Voi siete solo degli oggetti!” disse il giovane.

“Sei proprio un maleducato!” fece una voce femminile, proveniente da un cofanetto porta gioie.

“E con questo? Siamo oggetti che hanno vissuto molte vite, viaggi, utilizzi…Le nostre fiamme raccontano quando ci hanno trasformati da alberi a oggetti ma non per questo non abbiamo vissuto!” spiegò il baule.

“Forse non abbiamo un’anima come la tua, ma abbiamo ricordi” aggiunse la cornice.

“Io ricordo un filo di perle bianche di una signora inglese, e di come sua figlia si provava di nascosto i suoi gioielli davanti allo specchio, per sentirsi grande come la madre” disse il cofanetto.

“Io ricordo il pittore che mi scelse per incorniciare il suo quadro, e il vandalo che strappò la tela con delle forbici mentre ero appesa in un museo” disse la cornice.

“Io ricordo il corredo di nozze in pizzo e ricamo di una sposa sfortunata, e di come, anni dopo, suo figlio cercò di nascondersi dentro di me da alcuni soldati malvagi venuti a portarli via per sempre” disse il baule.

“Capisco” disse Pietro “Avete tutti dei ricordi, delle storie. Ma cos’era quella sull’essere bruciati?”

“La gente non ci vuole più, per questo siamo qui” rispose la cornice.

“Nessuno vuole dei pezzi antichi e tarlati, lasciati a marcire dai loro avi in cantine e soffitte. Vogliono solo impiallacciati laccati di bianco, mobili leggeri, componibili come le case delle bambole” aggiunse il baule.

“Per questo ci hanno lasciati per strada, in attesa di essere portati via e smaltiti” concluse il cofanetto.

“È molto triste” disse Pietro “Non c’è alcun modo di aiutarvi?”

“Giovanotto, a meno che tu non possa portarci tutti con te non penso che tu possa fare qualcosa…” disse la cornice.

“Beh mi piacerebbe: ho sempre avuto la passione per il legno, anche se la mia prima vocazione è la pittura” disse Pietro. “Siete degli oggetti di grande valore, con tutte le vostre storie e come voi non ne faranno più. Se sarete ancora qui, quando questo strano viaggio sarà finito, mi piacerebbe portare qualcuno di voi con me”

“È molto generoso da parte tua, ma non dire cose importanti se non sei sicuro di volerlo fare” disse il tassista, mettendo una mano sulla spalla del giovane.

Pietro fece spallucce “Presto non potrò più dipingere come prima. Sembra che le mie lettere di fuoco fossero solo frutto di una malattia…ma le fiamme di questi oggetti di legno potrebbero continuare a dare un senso alla mia arte” disse il giovane.

“Nessuna malattia potrà mai impedirti di essere quello che sei: un’artista trova sempre la sua arte” disse il tassista.

“Ti aiuteremo noi amico!” disse la cornice.

“Sarebbe un onore rinascere per mano di un’artista così sensibile” disse il cofanetto.

Pietro si sentì pervaso di una strana sensazione, qualcosa che non provava da molto tempo e che perciò faticò a riconoscere: era un tepore che gli scaldava il petto in quella strana notte in un viaggio improbabile. La sua attenzione venne attratta nuovamente dalla sua guida, che gli faceva cenno di proseguire.

“Andiamo, non siamo ancora arrivati alla nostra meta” disse il tassista e Pietro lo seguì.

*

Nonostante le strade della città fossero deserte, il giovane aveva la vaga sensazione che non fossero i soli a percorrerle: ogni tanto gli sembrava di vedere delle ombre passargli accanto, come la brezza che aveva percepito infilarsi attraverso il cancello di ferro sul fiume. Passando a fianco ad un bar con tanto di tavolini e sedie apparecchiate fuori, gli parve di sentire il tintinnio di tazze di porcellana, come se ospiti invisibili fossero intenti a bere da tazzine inesistenti, ma che nella sua immaginazione dovevano avere piccoli fiori colorati disegnati sulla superficie bianca e lucida. Ad un certo punto, gli parve persino di sentire il profumo fragrante di cibo appena cucinato uscire da una finestra socchiusa.

“Siamo arrivati” disse il tassista.

Erano arrivati davanti all’entrata di un hotel lussuoso, con un’antica porta girevole: le luci gialle dell’albergo illuminavano il marciapiede dove si trovavano i due. Il nome dell’albergo era scritto in grandi lettere di ottone sopra alla tettoia d’entrata: L’Altrove.

“Dopo di te” fece il tassista.

Pietro spinse la porta di vetro e legno e si ritrovò in un ampio atrio con marmo a scacchi bianchi e neri, poltrone rétro in velluto rosso e mobili di legno laccato in stile anni ’30. Al banco dell’accoglienza un uomo curioso era seduto, in attesa.

“Ah eccovi! Mi chiedevo quando sareste arrivati!” esclamò con voce calorosa.

“So che siamo in ritardo, ma c’è ancora tempo per la consegna di oggi” disse il tassista.

Pietro osservò l’uomo dietro il bancone: era piccolo e con il viso squadrato, una barba ispida e biondiccia, un paio di occhi buoni di un blu acquoso dietro due lenti rotonde e portava un cappello panama che gli dava l’aria di essere un turista, più che un dipendente dell’hotel.

“Ma certo! Ecco” disse l’uomo. Si chinò dietro il bancone e sparì completamente per qualche secondo, rovistando tra carte e altri oggetti che Pietro non poteva vedere.

“Come promesso. Mi raccomando, la mia cara amica ha bisogno di questa” disse l’ometto, riemergendo con un blocchetto di fogli. Mentre li passava al tassista, a Pietro parve di vedere uno spartito musicale e finalmente riconobbe l’uomo dietro al banco. Appena lo aveva visto aveva pensato che avesse un’aria familiare, ma ora non aveva più dubbi. Il guaio era che non poteva essere chi Pietro pensava che fosse: quel grande artista era morto da anni!

Rendendosi conto di avere occhi e bocca spalancati come un maleducato, il giovane tentò di ricomporsi e si schiarì la voce. L’uomo dietro al bancone lo stava osservando con curiosità divertita.

“Scusatemi ma…Lei somiglia molto a…” balbettò Pietro.

“Io sono io ragazzo. Non ti sei sbagliato” disse l’ometto, sorridendo.

“Ma com’è possibile! Non ci credo!” esclamò il giovane, guardando ora il tassista ora l’altro.

“Tutto è possibile nell’Altrove” disse l’uomo, allargando le braccia sul bancone.

“Ma si può sapere che posto è questo?” chiese Pietro “Fino ad ora ho visto cose incredibili: donne che fanno crescere i fiori con la loro musica, strane cavalcature su un fiume che non possono esistere nella realtà, mobili che parlano, una città deserta eppure viva e adesso lei…” Il giovane era senza fiato per lo sforzo di rievocare tutto quello che aveva vissuto quella notte.

L’uomo annuì sorridendo benevolmente e uscì da dietro il bancone per dare una pacca rincuorante sulla schiena del giovane. Da vicino Pietro si accorse che era ancora più piccolo di quanto non apparisse da dietro il banco in mogano.

“È normale che tu sia confuso figliolo. Lascia che ti spieghi meglio” disse l’uomo, guidando il giovane per un braccio fino in fondo alla sala e oltre una porta su un bellissimo giardino interno. Qui c’erano tre poltrone di vimini e con grande sorpresa di Pietro, una di queste era occupata da Alice. L’anziana donna era seduta sorseggiando quella che sembrava una tazza di caffè bollente da un servizio di porcellana apparecchiato su un basso tavolino in mezzo alle poltrone. Aveva un aspetto migliore di come Pietro era abituato a vederla: i capelli bianchi raccolti in uno chignon, occhiali a forma di goccia con montatura di tartaruga e un vestito verde con delle frange che pendevano dalle ampie maniche.

Fine Terza Parte

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