La cittá di mattoni rossi era in fermento. Michela era in fermento con essa: a dieci anni avrebbe assistito per la prima, e probabilmente unica volta, alla festa della Cometa Rossa. Sua nonna aveva partecipato alla festa quando era ancora piú piccola di lei e le aveva raccontato della fortuna che portava poter vedere coi propri occhi la Cometa Rossa; la cometa infatti passava sfrecciando in cielo ogni cento anni circa. Il suo passaggio non era solo spettacolare da vedere, ma portava anche grandi cambiamenti nella vita di chi vi assisteva. Non era necessario esprimere alcun desiderio in particolare, la cometa guidava con provvidenza il corso della vita di chi l’aveva ammirata.
Perció era molto importante che tutti si trovassero fuori ad ammirare il passaggio della cometa il giorno in cui gli astronomi avevano calcolato che si sarebbe tenuta la festa. Da circa due settimane la cittá era in subbuglio per i preparativi della festa: i cuochi preparavano tutte le pietanze a base di frutti e carni rosse, i sarti si prodigavano giorno e notte per soddisfare le richieste di capi di stoffa rossa, le donne che potevano permetterselo arredavano persino le loro case di rose e gerani rossi. Come se non bastasse il fatto che la cittá fosse costruita di mattoni rossi leggeri e appariscenti, tutti si prodigavano a trasformarla in un prezioso rubino incastonato nel verde delle colline estive.
Il giorno stabilito del passaggio della Cometa Rossa, Michela uscí di buon ora per andare a prendere il vino rosso che sua madre aveva richiesto ad un contadino che abitava dall’altra parte della cittá. Attraversando le strade addobbate e ascoltando i richiami dei venditori di frutta, spezie e dolciumi vari, la bambina si prese il suo tempo per fermarsi ad osservare tutte le bellezze che la circondavano. Era una calda giornata estiva e si accorse improvvisamente di avere sete, ma aveva solo i soldi che sua madre le aveva dato per il vino, quindi non poteva comprarsi il ghiaccio dolce alle ciliege che era il piú ambito dai bambini che si fermavano davanti al carretto del venditore.
Proseguendo in discesa verso la porta che dava sulle campagne circostanti, Michela si diresse convinta verso la fonte d’acqua cristallina che serviva per abbeverare i viaggiatori che entravano o uscivano dala cittá; ma a causa della festa, i visitatori erano talmente tanti che si era formata una lunga coda davanti alla fonte, sorvegliata dai gendarmi per prevenire qualche tafferuglio sulla distribuzione dell’acqua. Rassegnata, la bambina decise di continuare verso la fattoria del contadino, dove avrebbe chiesto di poter avere lí un poco di acqua fresca.
La strada verso la fattoria era circondata da ulivi bassi e tozzi che offrivano un po’ d’ombra ai contadini durante la pausa e da alti cipressi che si stagliavano come pennoni di navi in mezzo alle morbide curve delle colline che solcavano. Michela era quasi arrivata alla fattoria dove avrebbe ritirato il vino per la sua famiglia, quando si fermo sotto uno dei cipressi per riprendere fiato: era quasi mezzodí e l’ombra dell’albero era piccola. Respirando l’aria polverosa della terra secca e togliendosi il fazzoletto dalla testa per sventolarsi, la bambina si guardó intorno. Solo le cicale frinivano nel solleone.
“Quanto vorrei che avere dell’acqua” pensó la bambina. In quel momento al suo orecchio arrivó l’eco attutita di una goccia d’acqua; guardandosi intorno Michela si rese conto che il suono veniva dal campo di ulivi dietro di lei. Si addentró nel terreno cercando, come un segugio, di seguire le tracce del suono che le arrivava di tanto in tanto. Dopo aver camminato non poco tra le ombre degli alberi, la bambina si trovó ai piedi un secchio di legno legato ad una corda, nel mezzo del nulla. Si chinó ad osservarlo e vide che sul suo legno vecchio e consumato c’era uno strano simbolo: a prima vista sembrava un emblema, ma la bambina non ne aveva mai visto uno come quello. Una singola stella rossa circondata da una rete d’oro.
Delusa per non aver trovato l’acqua, Michela stava per andarsene quando d’impulso decise di raccogliere il secchio e di portarlo con sé. Neanche lei sapeva a cosa gli sarebbe servito un vecchio secchio vuoto, ma non aveva resistito alla tentazione. Mentre tornava sulla strada si accorse del rumore di un ruscello poco distante da lei; corse verso il suono col suo secchio. Il ruscello non era altro che un canale tra i campi, incassato in un fosso stretto e profondo. Felice, Michela prese il suo secchio e lo caló con la corda lungo il fosso, finché non raggiunse l’acqua: lasció che l’acqua corrente lavasse via la polvere dal secchio e poi lo tiró su con la preziosa acqua fresca e limpida. Acqua finalmente! pensó la bambina mentre tuffava le mani nel secchio per bere e sciacquarsi il viso. Mentre stava ancora gustandosi la sua fortuna per aver trovato un secchio al momento giusto, la bambina sobbalzó vedendo una figura che si avvicinava dall’altra parte del canale dove scorreva il ruscello.
“Ehi tu! Che cosa fai con quel secchio?” gridava la vecchia contadina, agitando un forcone. “Lascialo subito dove lo hai trovato!” continuava.
Michela impaurita, prese il secchio e se la diede a gambe levate, mentre la voce della donna la rincorreva tra gli alberi.
“No cosa fai! Non sai cosa hai raccolto! Ti chiederá un prezzo sempre piú grande…” ma la voce isterica della megera si perse ben presto, attutita dagli alberi e dal fiatone della bambina che correva per ritrovare la strada da dove era venuta.
Michela non si fermó finché non si ritrovó davanti al casolare dela fattoria dove l’aveva mandata sua madre per il vino. Sollevata, la bambina rallentó per riprendere fiato: che paura che le aveva fatto quella vecchia strega, coi capelli bianchi come tele di ragno e il viso rugoso. Non sarebbe mai piú andata a prendere l’acqua a quel ruscello! decise. Quando si presentó dal contadino per prendere il vino questi l’accolse imbarazzato, dicendo che quella mattina, a causa di un paio di lavoranti distratti, tutti gli otri del vino erano andati in pezzi e non aveva quindi un contenitore con cui la bambina potesse portare il vino. La bambina gli mostró il secchio e disse “Non sará un otre, ma possiamo usare questo per il vino”. Il contadino si convinse, anche se il secchio non sembrava molto affidabile; insieme, lui e Michela travasarono il vino nel secchio e lo coprirono con uno strofinaccio perché api e mosche non ci andassero dentro lungo la strada. Il contadino infine, si rifiutó di prendere tutti i soldi che la bambina aveva portato, dicendo che non sarebbe stato giusto visto che non aveva neanche un contenitore ideneo da offrire per quel prezzo. In realtá il contadino dubitava che il suo vino sarebbe stato bevibile dopo il trasporto nel vecchio secchio di legno e non voleva rischiare di farsi un cattivo nome. La bambina si avvió dunque sulla strada del ritorno, col suo secchio e il vino rosso.
Il secchio non fece uscire neanche una goccia del prezioso vino ma quando la bambina arrivó a casa, sua madre la rimproveró molto per aver accettato di portare il vino buono in quel vecchio secchio. Diede un gran ceffone sulla guancia della figlia, che diventó subito rossa e si mise a piangere. La donna stava per buttare via il vino, quando la vecchia cuoca che arrivó dalle cucine sentendo quel fracasso, la fermó e invitó la donna ad assaggiare il vino prima di sprecarlo. La padrona di casa era contrariata e disse “Sciocchezze! Il vino non puó essere buono dopo esser stato dentro un vecchio secchio di legno!” Ma alla fine decise di accontentare la cuoca, dopo che anche questa si offrí di assaggiare il vino; con una piccolo calice di ottone, le due donne sorseggiarono sospettose il vino dentro il secchio. Era squisito! Il migliore che avessero mai preso dal loro viticoltore di fiducia. La padrona di casa istruí la cuoca di travasare il vino dentro una brocca di vetro, cosí che restasse fresco e che fosse presentabile sulla tavola della festa quella sera. Poi si scusó con sua figlia che aveva rimproverato ingiustamente e le disse di andare a lavare il secchio al pozzo della piazza, cosí da poterlo riusare per altre faccende.
La bambina si riprese dalla partaccia e corse al pozzo col suo secchio per lavarlo e sciacquarsi la guancia con l’acqua fredda. Mentre andava al pozzo, pensó che il secchio doveva essere magico, visto che tutto quello che lo riempiva rimaneva buono. Chissá quale altra fortuna gli avrebbe portato. Al pozzo c’era sempre qualcuno per prendere l’acqua e bisognava aspettare pazientemente il proprio turno, ognuno con il proprio catino o secchio. Quando arrivó il turno della bambina, lei caló il suo secchio fino a quando non sentí il rumore dell’oggetto sull’acqua e lo tiró sú: la sorpresa per trovarlo cosí leggero si tramutó in delusione quando si rese conto che il secchio era vuoto. Calandolo di nuovo nel pozzo pensó che forse non aveva aspettato che si riempisse abbastanza. Dietro di lei, la fila di gente cominciava a sporgersi per vedere cosa succedeva; l’uomo dietro di lei cominció a metterle fretta. Michela si scusó e tiró su il suo secchio di fretta: anche stavolta il secchio era vuoto. La bambina non riusciva a capire cosa stava succedendo e una folla di curiosi cominció a formarsi attorno a lei, protestando per la sua lentezza e chiedendo di avere accesso al pozzo.
“Mi dispiace! Il secchio sembra non volersi riempire…” Diceva la bambina preoccupata per tutte le facce contrariate che la guardavano.
“Sicuramente sei tu a non essere capace ad usarlo! Lascia che ci provi io!” disse qualcuno, provocando le risposte degli altri. Ma prima che qualcuno potesse minacciare la piccola Michela, due guardie a cavallo si avvicinarono alla folla per informarsi sull’accaduto. Alcuni protestarono con loro sulla lentezza della fila per il pozzo, ma altri si ritirarono a testa bassa per non avere problemi. La bambina si allontanó dal pozzo per tornare a casa, approfittando della distrazione della folla. Mentre tornava a casa si chiese se non fosse stato un caso che il secchio avesse retto cosí bene acqua e vino, che fosse soltanto un vecchio secchio dopo tutto?