“Nonna, a te che animale piacerebbe essere?” stava dicendo il bambino mentre lanciava la palla in aria e la riprendeva.
“Quale animale…mmmh vediamo” fece la nonna “mi piacerebbe tanto poter volare, come gli uccelli in cielo” disse indicando le rondini che volavano nell’azzurro di quella giornata estiva.
“A me piacerebbe essere un elefante” disse il nipote.
“Ma davvero? E perché proprio un elefante?” chiese la nonna.
“Perché sono grandi e forti e potrei raccogliere cose con il mio naso lungo” disse il bambino facendo finta che il suo braccio fosse una proboscide.
“Bah! Quante stupidaggini!” borbottó Alice, l’anziana che stava seduta sulla panchina di fianco a quella dove stavano nonna e nipote.
“Quando tireró le cuoia non saró proprio nulla. Anzi, saró contenta di essere solo polvere, cosí non avró piú grane di cui preoccuparmi” continuó, un po’ rivolta al quotidiano che stava leggendo e un po’ ai vicini di panchina.
“Hai tante cose di cui preoccuparti nonnina?” chiese il bambino con la sua palla colorata.
Alice lo guardó da sotto le spesse lenti degli occhiali calati sul naso adunco.
“Grazie al cielo non molte ormai! Ma non voglio certo farmi illusioni su cosa potrei essere peggio di cosí…e non chiamarmi nonnina!” sbottó.
“Neto, lascia in pace la signora Alice, oggi non é di buon umore…” disse la nonna.
Alice rise di una risata da megera, alta e stridula che fece sobbalzare il piccolo Neto e la nonna.
“Per quale motivo dovrei essere di buon umore?” disse.
“Nonna, Alice ha la stessa risata della Befana” disse Neto.
Sua nonna lo tiró via dolcemente, ridendo “Hai ragione Neto, un pochino le somiglia anche in effetti”
“Bah! Se fossi la Befana per davvero me ne volerei sui tetti con un gatto nero a far dispetti a voi sentimentali!” fece Alice, agitando la mano grinzosa come per scacciare delle mosche fastidiose.
Il sole stava calando nella piazza con gli alberi; era una di quelle sere calde, ma con un vento che soffiava dal mare, che profumava e rinfrancava le anime afflitte dal caldo della giornata. Una sera di fine estate, quando la luce soffusa dei lampioni accompagnava il tramonto dorato tra i palazzi della cittá e il sole andava a coricarsi ogni volta un po’ prima, perché il giorno piú lungo dell’anno era giá passato.
Alice si decise a tornare a casa quando il vento le sembró troppo fresco per la sua schiena curva. Ripiegó rumorosamente il giornale, ovviamente le pagine non tornavano mai nel modo in cui le aveva comprate. I giornali hanno una strana attitudine all’entropia, esattamente come le mappe turistiche e le cartine stradali: non si riesce mai a ripiegarle nel modo giusto.
La vecchia si alzó dalla panchina aiutandosi col suo bastone da passeggio: legno di castagno, con un manico in ottone ricurvo. La donna lo aveva preso tempo prima ad un mercato dell’usato: leggero, di buona fattura ed economico, di quelle cose che non si trovavano piú in giro.
Il quartiere dove abitava Alice, era un posto tranquillo: sulla piazza dove andava a leggere il giornale c’erano una scuola, un bar, una mesticheria e, ovviamente, un’edicola di giornali. Le case che davano sulla piazza erano grandi, vecchie e in stile signorile; quasi tutti gli appartamenti all’interno erano ormai sfitti, visto che i proprietari erano morti e per le famiglie era piú costoso ristrutturarli che tenerli vuoti. Alice abitava all’ultimo piano di una casa poco piú in lá della piazza, anch’essa grande e molto vuota, salvo per Alice, una specie di giovane artista eremita, una famiglia con due bambine e una coppia di anziani. Essendo la sua casa all’ultimo piano, Alice non solo aveva la vista migliore dal suo terrazzo, ma anche il caldo piú afoso d’estate e le piogge piú insistenti d’inverno. Per non parlare delle beghe con il vecchio ascensore che ogni tanto si guastava, facendo sí che lei dovesse farsela tutta a piedi, gradino per gradino col suo bastone e i denti stretti per impedire a se stessa di far sgorgare il mare di improperi che rischiavano di risuonare in tutto il corridoio vuoto.
Le porte dell’ascensore sferragliavano ogni volta che qualcuno le apriva e chiudeva. Alice arrivó sul suo piano senza incontrare nessuno: in quel periodo quasi tutti erano in vacanza, persino la coppia di anziani del piano terra. La vecchia viveva sola ormai da tempo, salvo per i suoi canarini: una coppia di canarini gialli che cantavano sempre all’alba e ciarlavano allegramente tra loro durante il giorno, dentro la grossa gabbia sul terrazzo. Alice aveva letto, in uno degli articoli del giornale che divorava tutti i giorni, che nei paesi del lontano oriente, i proprietari di canarini, merli, cocorite e altri uccelli domestici, li portavano con loro al parco in gabbiette leggere di bamboo o vimini. Una volta al parco, appendevano le gabbie sui rami bassi degli alberi e facevano conversare gli animali tra di loro. Alice la trovava una cosa molto stupida: un animale che ha perso la libertá non potrá mai accontentarsi di una semplice passeggiata al parco da dentro un’altra gabbia. Quando i suoi canarini compivano 5 anni di vita, Alice lasciava la porta della gabbia aperta e, se questi sceglievano, lasciava che volassero via liberi. La donna aveva cosí liberato una decina di uccelli, visto che purtroppo non tutti quelli che aveva preso erano arrivati ai 5 anni; un gran peccato se si considera che i canarini possono arrivare a campare fino a dieci o dodici anni.
La vecchia si sedeva sempre in terrazza nelle sere d’estate, a sorseggiare caffé amaro e ascoltare le ultime canzoni dei suoi amati canarini. La sua casa rimaneva buia e silenziosa: la televisione c’era, ma Alice la guardava solo di rado, e comunque il modello era ormai talmente vecchio che non prendeva piú quasi nessun canale. L’unica luce accesa, rimaneva quella dello studio, che illuminava una scrivania vuota e una parete tappezzata di libri dalle rilegature impolverate. A volte, Alice attingeva dalla libreria polverosa e rimaneva in terrazzo fino a quando non sentiva le palpebre farsi pesanti e i canarini non avevano smesso di cantare da tempo e allora sapeva che era ora di coricarsi.
Quella sera Alice sedeva col suo caffé sul vaso di coccio col vassoio tondo poggiato sopra, a mo’ di tavolo da giardino, e il libro che aveva scelto per invitare il sonno. La donna si stava sistemando meglio nella sedia di vimini coi cuscini ancora caldi dal sole della giornata, quando un guizzo alla periferia del suo sguardo attiró la sua attenzione. I canarini avevano improvvisamente smesso di cantare e stavano immobili e attenti da un lato del trespolo di plastica.
Da sotto la gabbia di metallo spuntó un gatto nero: longilineo, il pelo lucido e gli occhi verdi che brillavano come due biglie di vetro sul fondo di uno specchio d’acqua. Il gatto socchiuse gli occhi in direzione di Alice e poi si sistemó davanti alla gabbia, osservando attento i due canarini, che tremavano di paura sul trespolo.
“Ehi tu! Sció! Pussa via!” fece Alice al gatto.
“Ma sono appena arrivato” disse questi con una voce bassa e roca.
Alice trattenne il respiro dalla sorpresa: i gatti non sanno parlare, di questo era sicura.
“Tu non puoi parlare! Sei un gatto e i gatti non parlano” disse arrabbiata all’animale.
Lui si stiracchió e sbadiglió in faccia alla vecchia “Ah si? Ma io non sono un gatto” disse.
“E che cosa sei? Certo che sei un gatto!” disse Alice, sempre piú indispettita.
“Non ti annoi a stare qui da sola tutte le sere e sentire questi due pessimi cantanti?” chiese il gatto.
Alice sbuffó “Sono i miei pessimi cantanti gatto, e comunque, cos’altro dovrei fare?”
“Per esempio farti una passeggiata per la cittá, ci sono molte cose interessanti da vedere in una sera d’estate come questa” disse il gatto nero.
La vecchia lo guardó con sospetto “Non vorrai dirmi che sei il diavolo?”
Il gatto se la rise di gusto, facendo le fusa “Non direi, ma se vuoi posso farti strada”
“Dove?”
“Per le strade della cittá”
Alice sbuffó “Pff, io la conosco molto bene questa cittá”
“Ah ma quella che ti mostrerei io, sarebbe tutta un’altra cosa!” disse il gatto, sempre facendo le fusa.
“Mmh…d’accordo. Ma alla fine del tour non avrai la mia anima, te lo assicuro! E niente scope!” disse Alice.
Detto ció, Alice si alzó dalla sedia di vimini scricchiolante. Non ebbe neanche il tempo di fare un passo che si ritrovó giá fuori, in strada davanti al portone d’ingresso della casa chiusa.
“Ecco, lo sapevo! O questa é magia nera, o io sono giá morta” disse Alice un po’ al gatto che le stava di fianco e un po’ a se stessa.
“Nessuna delle due vecchia, stai tranquilla” disse il gatto “solo una scorciatoia, ci sono tante cose da vedere e la notte é breve”
Il gatto si avvió dondolando lungo la strada in salita e Alice gli andó dietro.
Le strade erano avvolte nel silenzio: molta gente aveva lasciato la cittá per andare in vacanza e riempire spiagge e alberghi. Solo l’anziana e il gatto passeggiavano per la strada, neanche una macchina passava.
“Vieni, la prossima svolta sará un po’ brusca, ma dobbiamo prenderla di corsa” disse il gatto.
“Bah! Di corsa? Io non corro piú da anni!” esclamó Alice.
“Ma certo, solo che questa strada é obbligatorio prenderla di corsa, altrimenti non si prende affatto” disse il gatto, fermandosi al centro della strada deserta.
“Guarda, é facilissimo!”
Il gatto spiccó un balzo in avanti e cominció a correre spedito lungo la strada; all’improvviso, l’animale prese il volo. Piú che correva, piú che si sollevava in alto: sembrava quasi che ci fosse una strada invisibile che partiva dall’asfalto e collegava il cielo notturno alla terra. Alice lo guardó con la bocca aperta dallo stupore, il naso puntato sempre piú in alto tanto il gatto sembrava non volersi fermare. Finalmente, cosí come aveva cominciato a salire dal nulla, il gatto si arrestó, poco piú in alto rispetto ai tetti dei palazzi vicini; si fermó sospeso in aria e si giró ad aspettare Alice.
“Ancora lí?” fece dall’alto “Forza befana! Fai vedere come corrono quelle gambe rinsecchite!”
“Ora ti faccio vedere io” disse Alice. Si concentró su un punto lontano sulla strada, nel vuoto, raccolse l’orlo della gonna e si diede una spinta con il piede davanti, come quando iniziava una corsa da bambina. Alice sapeva benissimo che nulla di tutto ció aveva senso: il gatto parlante, apparire e scomparire sulla strada e camminare nell’aria, correre come se fosse ancora giovane. Eppure le sue gambe ubbidirono a quell’impulso: un passo dopo l’altro, con le pantofole che le sbattevano contro i talloni – non aveva neanche potuto mettersi le scarpe prima di uscire di casa – Alice correva lungo la strada deserta. D’un tratto sentí che la strada si faceva sempre piú in salita, ma ció non rallentó la sua corsa, anzi, le sembró di accelerare sempre di piú, mentre la strada d’asfalto si allontanava sotto di lei. Alice vedeva i lampioni piegarsi come sotto la prospettiva distorta da una lente, le case scansarsi attorno a lei e, allo stesso tempo, sentiva la sua risata sgorgare dalla gola per la felicitá di poter volare come nessun essere umano aveva mai fatto.
Alice arrivó in cima, dove il gatto l’aspettava e si fermó col fiatone e l’eco della risata ancora in gola; poggió le mani sulle ginocchia per riprendere fiato e si giró a vedere la strada che aveva fatto. Si trovavano sospesi in aria, nel nulla, poco sopra i comignoli dei palazzi: l’aria aveva una consistenza solida che permetteva loro di camminarci sopra come se ci fosse una lastra di vetro invisibile che li sorreggeva. Le strade vuote sotto di loro rimanevano silenziose, le luci dei lampioni proiettavano solo leggermente le loro ombre sui muri.
“Che mi venisse un colpo…sto volando!” esclamó Alice.
Il gatto ridacchió “Da qui possiamo camminare in linea d’aria e raggiungere tutto molto piú velocemente”.
Il gatto riprese a camminare in aria, verso la collina che si alzava dolcemente sul fianco della cittá e Alice lo seguí. Sul lato della collina, circondato da un’alta ringhiera di ferro, c’era un piccolo parco, con siepi, alberi, sentieri e persino un laghetto. Alice lo conosceva bene, ci era andata spesso quando era piú giovane, ma poi per molti anni era stato chiuso per ristrutturazione e cosí era rimasto inaccessibile.
Visto dall’alto delle cime dei pioppi, il parco sembrava deserto, non fosse stato per un gran rumore di cinguettii che provenivano dalle fronde piú basse.
“Ma cos’é tutto questo baccano a quest’ora della notte?” chiese Alice al gatto.
“Oh tra un momento lo vedrai” rispose lui.
Cosí dicendo, come se ci fosse stata una scala, cominció piano a scendere da dove si trovavano. Alice trovó che era davvero come scendere una scala, ma piú facile, visto che non erano veri e propri gradini, né come una discesa ripida. Arrivarono a terra in men che non si dica, passando direttamente tra i rami piú alti degli alberi e scendendo dolcemente tra i tronchi dal loro sentiero invisibile. Piú scendevano e piú il cinguettio aumentava, diventando un vero e proprio coro; Alice si chiese come faceva il rumore a non disturbare le persone che vivevano vicino al parco.
La vecchia e il gatto misero piede sull’erba umida e si guardarono intorno; ad Alice le gambe tremavano leggermente, come quando si pedala per tanto tempo e poi si scende dalla bicicletta e le gambe vogliono continuare a pedalare anche da terra.
Intorno a loro, sui rami degli alberi, erano appese decine e decine di gabbie di vimini e bamboo e al loro interno saltellavano e cantavano delle bottiglie di plastica. Erano per lo piú bottiglie trasparenti, leggermente ammaccate, con e senza tappi; alcune erano bottiglie colorate di bevande tutto zucchero.
Le bottiglie si erano fatte piú silenziose mano a mano che si erano accorte della presenza del gatto e di Alice e li fissavano immobili, senza occhi.
“Questo si che é strano” disse Alice sottovoce, come se avesse paura della quiete delle bottiglie dopo tutto il loro cinguettare.
“Curioso vero?” disse il gatto, girando sornione sotto le gabbie.
“Perché ci sono delle bottiglie di plastica nelle gabbie per uccelli? E perché fanno lo stesso verso degli uccelli?” chiese Alice.
Il gatto sospiró “Sono prigioniere, messe in gabbia perché non possano piú inquinare l’ambiente dove sono state buttate via. Ma loro sono furbe: hanno imparato ad imitare i versi di molti uccelli, in attesa che qualcuno le liberi”
“Che assurditá! Non hanno certo l’aspetto di innocui cardellini, chi potrebbe mai cadere in un trucco del genere?” fece l’anziana.
“Gente che ci vede poco” rispose il gatto.
“Come sarebbe?” disse Alice “eppure io sono orba senza occhiali, ma vedo benissimo che non sono dei veri uccelli!”
“Questo perché tu sei cinica e realista. Vedi la veritá delle cose per quello che sono e non hai paura di vederla” disse il gatto.
“Si ma…” cominció Alice, ma un cigolio metallico la fece interrompere.
Qualcuno aveva aperto il cancello del parco – eppure la donna si ricordava di un pesante chiavistello che lo teneva chiuso da anni – e stava camminando in direzione delle gabbie.
“Presto, nascondiamoci dietro quella sfinge, meglio che il cacciatore di bottiglie non ci veda” disse il gatto, facendo uno scatto verso una statua di pietra di una sfinge ricoperta di licheni verdi e cacche di piccione grigie. Alice lo seguí in fretta, mentre intorno a loro le bottiglie di plastica cinguettavano arrabbiate.
Un anziano dai tratti asiatici si avvicinava con una gabbia in mano, dentro c’era un’altra bottiglia di plastica. Il vecchio aveva lunghi capelli bianchi che gli scendevano radi sulle spalle, due baffi grigi e lunghi come due code di topo. Gli occhi erano talmente sottili che sembravano chiusi; era piuttosto piccolo e ricurvo ma incedeva con fare sicuro verso la radura delle gabbie. Il vecchio si fermó nella radura delle bottiglie e appese la nuova gabbia ad un ramo dove giá penzolavano altre due gabbie piene.
“Ooh…” disse sorridendo con una bocca sdentata “Bene bene, avete visto? Ho raccolto un’altra delle vostre amiche, ora non potrá piú nuocere all’ambiente in cui gli umani l’avevano abbandonata”.
“Non capisco” disse Alice al gatto, parlando con un filo di voce “Chi é quell’uomo? Perché raccoglie le bottiglie e le mette in queste gabbie?”.
Il gatto indicó col muso lo stagno poco distante da loro “Guarda dentro quello stagno, non troverai nessun pesce, nessuna anatra, nessuna tartaruga…un tempo lui era il custode di quello stagno e di tutti gli animali che ci vivevano dentro e fuori. Era come un genio, uno spirito, dagli umani si faceva vedere raramente solo come una grossa carpa bianca nello stagno. Ma poi la gente che veniva nel parco ha cominciato a lasciare la loro spazzatura ovunque, senza ritegno e cosí hanno creato un posto inospitale per gli animali. Molti animali sono morti, altri se ne sono andati; quando il parco ha chiuso per ristrutturazione, lui é rimasto solo, senza scopo, con la spazzatura”. Il vecchio aveva l’aria decrepita e triste, non piú cosí subdola come era sembrato ad Alice all’inizio. “In realtá voleva solo ripulire il mondo, intrappolando queste bottiglie e tenendole come sue compagne di solitudine. Ma loro sono infide e la gente é incorreggibile: continuano a buttare bottiglie in giro, e loro tornano in libertá ad inquinare il mondo” spiegó il gatto.
Alice sentiva la gola asciutta, di fronte alla solitudine dello spirito dello stagno. “Povero genio…Non si puó fare nulla per aiutarlo?” disse.
Il gatto sospiró “Forse uno: raccontare di lui alla gente, cosí che finalmente qualcuno venga a ripulire il parco e lo stagno e tutto torni ad essere come prima”
“Oh…non so come ma ci proveró” disse Alice, fissando il vecchio genio malinconico.
Il vecchio si avvicinó zoppicando allo stagno e vi entró immergendosi del tutto fino a scomparire. La radura si era fatta improvvisamente piú silenziosa e buia, persino le bottiglie ingabbiate tacevano, finalmente.
“E adesso?” fece Alice.
“Adesso si continua il tour. Ricordati della tua promessa, non c’é cosa peggiore di non manterne una”, rispose il gatto nero.
Il gatto e Alice ripresero il volo, o meglio, il loro cammino nell’aria: dall’alto, la cittá pareva ancora piú vuota e addormentata che dal basso, ma cosí faceva meno paura. Le luci decoravano le strade ed i viali come un gigantesco diorama; i campanili e le cupole delle chiese si stagliavano piú in alto di tutti gli altri edifici.
Alice ed il gatto passarono proprio sopra al campanile della chiesa piú grande della cittá, colorato dei suoi marmi ad intarsio, le lunghe finestre nere come occhi che fissano in ogni direzione
“Certo che non l’avevo mai visto da questa prospettiva” disse Alice, fermandosi un attimo ad ammirarlo.
Il gatto si giró per aspettarla “Mmh bello vero? In confronto ai moderni grattacieli sembra una cicogna pronta a spiccare il volo; possente ma leggero allo stesso tempo”
“Non pensavo che i gatti se ne intendessero di poesia” lo scherní Alice.
“Beh dopo tutto abbiamo nove vite per fare pratica. E comunque non siamo tutti uguali, dipende da come e con chi viviamo. Io ho passato tutte le mie nove vite in strada, ma ho imparato meglio la poesia dal basso, prima di trovarmi cosí in alto”
“Gatto” lo interruppe la vecchia.
“Vecchia?”
“Sei sicuro che non siamo morti?”
“Io non lo sono, sicuramente. E neanche tu, fidati” sospiró il gatto.
Si erano avvicinati ormai al fiume, e di nuovo la strada sull’aria discendeva dolcemente verso terra. Una volta arrivati, si trovarono in un vicolo piuttosto buio e odoroso di umido, circondato da alte mura fatte di pietre enormi e antiche.
“Che posto é questo adesso?” chiese Alice.
“La nostra prossima meta é vicina” disse il gatto “presto, non abbiamo piú molto tempo” e si avvió lungo il vicolo.
Alice lo seguí, cercando di non pensare alle cose striscianti che potevano trovarsi ai suoi piedi in quel buio. Il vicolo era cosí stretto che solo guardando in alto si poteva vedere una striscia di cielo blu scuro dove brillavano delle rare stelle. Poco a poco, il vicolo si fece piú largo, finché Alice riuscí di vedere di nuovo il gatto ed i contorni della stradina: stavano ora costeggiando un muro che svoltava sulla sinistra in una curva leggera ma visibile.
“Attenta qui” disse il gatto, indicando ad Alice dei gradini che scendevano. Il vicolo sprofondava di qualche metro a fianco al muro che si apriva in un ampio arco dopo la scalinata. L’arco di pietra era ornato da un imponente cancello di ferro che era stato lasciato aperto; di lá dall’arco, lo sguardo si perdeva su una distesa di acqua bassa e luccicante.
Una nebbiolina leggera e lattiginosa aleggiava sull’acqua, salendo e scomparendo gradualmente nel cielo, con un effetto sfumato dai riflessi dorati dell’acqua, dal bianco al viola fino al blu della notte. L’altra riva del fiume era nascosta dietro la nebbia e cosí sembrava la distesa d’acqua fosse infinita. Le stelle rimanevano come appese ad un drappo tirato su un palcoscenico.
C’era un gran silenzio che imponeva di trattenere il respiro e farsi parte della quiete che regnava su quella porta improbabile su uno scorcio senza fine.
Alice osservava ammirata, a bocca aperta lo spettacolo che aveva di fronte, quando ecco che il silenzio venne interrotto da un fruscio sull’acqua, come di una barca che si avvicina. L’anziana strizzó gli occhi verso le ombre che si stagliavano piano nella nebbia: erano lente, goffe e stranamente sgraziate. Piú che si facevano vicine, piú che si ingrandivano e Alice trattenne il fiato dalla paura: le quattro zampe erano lunghe, rugose e affondavano nell’acqua trascinandosi ed emettendo il fruscio. Il corpo alla base delle zampe invece era tozzo, con grandi orecchie sventolanti come lenzuola dal balcone e una lunga proboscide penzolante al centro del muso. Degli elefanti giganti, come deformati in uno di quegli specchi dei parchi divertimento dove ci si vede ora piú magri, ora piú grassi, ora alti e ora bassi.
“Ma che roba é?” chiese Alice esterrefatta.
“A te cosa sembrano?” disse il gatto.
“Sembrano elefanti con zampe di gallina usciti fuori dal sogno di un pittore surrealista!”
Il gatto rise “Beh forse non hai tutti i torti” disse.
“Lo sai gatto?” disse Alice “Non avevo mai visto una cosa insieme cosí bella e cosí sgraziata. Sono pericolosi?”
“Solo se gli si dá troppa importanza, o troppo poca. Per questo é meglio guardarli da lontano di notte. Di giorno poi é tutto diverso, a quel punto il cancello non sempre rimane aperto” disse il gatto, la coda sinuosa che carezzava pigra l’aria.
L’orizzonte si faceva lentamente piú chiaro, la nebbia sull’acqua piú rada e gli elefanti la seguivano dall’altra parte del fiume.
“Accidenti! É quasi l’alba! Devo riportarti a casa vecchia o non faremo in tempo” esclamó il gatto.
“In tempo per cosa?” chiese Alice.
“Lo vedrai quando saremo a casa tua, ora seguimi presto!”
Il gatto nero cominció a correre da dove erano venuti e Alice lo seguí a ruota, senza avere il tempo di guardare un’ultima volta l’arco sullo specchio d’acqua. Il gatto e Alice corsero su per i gradini di pietra, lungo il muro alto e il vicolo stretto e buio; poi su nel cielo, con le spalle al mattino che arrivava lento e inesorabile.
Il gatto correva davanti a lei, sorpassando tetti, campanili, chiome alte e comignoli, Alice sentiva le gambe stanche, perdeva sempre piú terreno rispetto al gatto.
“Gatto…rallenta!” chiamó invano, il gatto non si fermó ad aspettarla.
“Ci siamo quasi! Non lasciare che l’etá che ti raggiunga ancora per un poco, continua a correre!” gridó la bestia senza voltarsi.
Alice annaspava, il respiro corto, le strade e le case che le scorrevano via sotto i piedi inciabattati, il gatto nero sempre piú distante che diventava un puntolino davanti a lei.
Di colpo, l’anziana sentí il sentiero sull’aria scendere come giá era successo due volte quella notte: riconobbe la piazza con gli alberi dove andava a sedersi a passare le belle giornate dell’anno e vide che davanti a lei c’era l’edificio di casa sua. Il suo terrazzo all’ultimo piano aveva ancora la finestra aperta, la gabbia coi canarini risplendeva alla luce che spuntava alle sue spalle. Oltre la soglia della porta sul terrazzo, in fondo al corridoio, la luce nello studio era ancora accesa e l’aspettava: vide un’ombra seduta alla scrivania, con una penna in mano e una pila di fogli di carta pronti. Le sembró di riconoscere l’ombra e continuó a correre, il cuore che le batteva impazzito per la sorpresa e la gioia di chi l’aspettava.
Finalmente arrivó sul terrazzo, si precipitó alla portafinestra, ignorando i canarini e la figura infagottata sulla sedia di vimini. Si precipitó nello studio, appena in tempo per vedere la figura di un uomo anziano, con dei bei baffi pettinati e gli occhiali spessi sul naso, un sorriso sulle labbra e negli occhi, che la guardavano. L’ombra svaní prima che lei potesse raggiungerla, prima che potesse sentire cosa le sussurrava; al suo posto rimasero soltanto i fogli, la penna e una tazza di caffé fumante.
Alice guardó i fogli e vide che erano bianchi, pronti; anche lei era pronta.
Sospiró e tornó in terrazzo, dove aveva lasciato il suo vecchio corpo a riposare.
Mentre una lacrima di commozione le cadeva dagli occhi, Alice sentí il calore del sole scaldarle il viso, come dopo una corsa folle di una notte d’estate.